domenica 5 febbraio 2012

RECENSIONE MUSICA: Wilco - Yankee Hotel Foxtrot




"Cos'è sta musica?
Sono passati 30 secondi da quando ho messo in play iTunes, e non ho ancora sentito uno straccio di melodia.
Possibile che sto disco dei Wilco sia una fregatura? Eppure ne parlano così bene...
...
No, aspetta. Ecco che sta partendo qualcosa.
Sono delle chitarre lontane...Ma che diavolo di percussioni usano?
...Ecco che le chitarre si fanno più sonore... Splendidi anche i sintetizzatori...
E... Il pianoforte? Che cazzo c'entra? Dissonante, perlopiù...
....
Ok, l'ultimo pezzo era carino... Ma è 1 minuto che va avanti sto bordello!
Violini distorti, pianoforte offuscato...
...Oh, meno male che è finita..."

-  A fine disco -


"Dio santo, questo album è un capolavoro. Come ho fatto a vivere senza finora?"
...

Sono queste le 2 reazioni che avrete ascoltando questo album, e saranno determinate soltanto da una successione cronologica.
La devastante bellezza delle sue canzoni demolirà anche i più prevenuti.
Le sue chitarre acustiche, dolci ed avvolgenti, riempiono il cuore di genuine emozioni, sconvolgendo l'ecosistema di noia-indifferenza che vi alberga da fin troppo tempo.
La voce di Jeff Tweedy (il frontman della band americana), spesso delicata e malinconica, in alcuni casi è addirittura straziata, e arriva a toccare le corde più intime dell'anima.
Preparatevi dunque ad un ascolto che vi obbligherà a mettere in replay ossessivo, mai sazi delle succulente sensazioni provocate dalle note di questi sgangherati musicisti.

L'esordio, almeno ai primi ascolti, non è dei migliori: "I'm Trying to Break Your Heart" è di gran lunga la canzone più sperimentale dell'album, con tutti i suoi effetti sonori, le sue sghembe melodie, il suo stonato pianoforte e i suoi synth impazziti. Rischia di spiazzare l'ascoltatore, ed è proprio quello a cui aspira.
La canzone successiva, "Kamera", ha una melodia così catchy da diventare istantaneamente l'inno nazionale della doccia e dei momenti liberi, mentre a demolire l'allegria ci pensa la straziante tristezza di "Radio Cure" che, aiutata dagli effetti sonori e dalla collaborazione tra chitarre e malinconici synth, sgonfia il cuore. Per la prima volta nell'album, si sentono le strascicate corde vocali del cantante, finalizzate ad enfatizzare il momento di disperazione.

E per la serie "Si ride per non piangere" ecco che arriva la saltellante "War On War", che tratta con incredibile spensieratezza il tema della guerra, anche stavolta aiutata da una melodia deliziosamente orecchiabile.


A seguire c'è probabilmente la canzone migliore dell'album: "Jesus Etc".

La dolcezza metropolitana è perfettamente resa nella morbidezza tanto delle percussioni quanto degli strumenti (violino e chitarre perfetti).
La voce è strepitosa, dannatamente malinconica. I suoi alti e bassi sono come un ottovolante di sentimenti, fanno vivere la precarietà delle emozioni, degli amori, della vita. Una canzone da cantare ad occhi chiusi, con un amaro sorriso sul viso e testa disperatamente rivolta al cielo.

"Ashes Of American Flags" potrebbe essere tranquillamente la colonna sonora di un film post-apocalittico; le sue pesanti percussioni e la sua rassegnata melodia evocano lontane realtà felici... Pensandoci, è anche una perfetta colonna sonora dell'attuale apocalisse artistica, del mondo che sta andando a puttane, dei sogni infranti e del "sogno americano" trasformatosi in un incubo.
Arriva immediatamente dopo il colpo di sponda, "Heavy Metal Drummer", pezzo dolcemente ironico con (guardacaso) grande presenza del batterista e, per completare il quadretto, la splendida "I'm The Man Who Loves You", se possibile ancora più ironica e dissacrante.
Una canzone che canta d'amore spensierato, strambo e goffo; spesso, quando l'ascolto, personifico la buffa chitarra elettrica in un uomo imbranato e impacciato che cerca di corteggiare l'amata con scarso successo, fino a conquistarla con la sua testarda dolcezza. E non so quante altre canzoni facciano questo effetto.

A chiudere, infine, c'è la tripletta "Pot Kettle Black" - "Poor Places" - "Reservations" che, in un crescendo di delicatezza e rassegnazione, partono dal rock piuttosto deciso per finire con le sfumature a dir poco emozionanti degli ultimi 7 minuti. Qui la voce diventa eterea, solleticando dolcemente tutte le emozioni provate in precedenza e lucidando gli occhi con un goccio di malinconia liquida.

"Yankee Hotel Foxtrot" è il capolavoro del decennio 2000/2010, poco da fare.
Parla all'anima come un amico vissuto in vena di chiacchiere, mentre suona silenziosamente le sue paradisiache melodie usando la vostra anima come chitarra.
Ascoltatelo o riascoltatelo il prima possibile, è il rimedio migliore contro il virus dell'insensibilità.

VOTO: 10

sabato 12 novembre 2011

POESIA - Lacrime

Lacrime
sangue che sgorga
invisibile da un cuore
flagellato

giovedì 27 ottobre 2011

RECENSIONE MUSICA: Coldplay - Mylo Xyloto

Oggi avevo intenzione di recensire un altro album uscito molto recentemente, "Mylo Xyloto" (non avrebbero potuto trovare un nome peggiore), l'ultima "fatica" dei Coldplay.




Il complesso inglese, tra i più famosi esponenti del cosiddetto "indie rock", sono da me considerati i "fratellini" dei Radiohead prima e degli U2 dopo. I motivi di tale affiancamento sono riconducibili alla leggera introspettività che li avvicinava alla band di Thom Yorke e, in seguito, una commercializzazione molto simile a quella degli U2.
Il processo di commercializzazione, però, si è decisamente accentuato con questo loro quinto album che, personalmente, mi ha dato grandi delusioni.

Innanzitutto, l'introspettività e la sensibilità che avevano i loro primi due album è, con mio grande dispiacere, totalmente scomparsa , sostituita da un banalissimo pop, neanche venuto così bene, e spesso persino noioso da ascoltare.

Il disco inizia con la title track, "Mylo Xyloto", una sorta di intro a dir poco inutile, che precede "Hurts Like Heaven", probabilmente la canzone più decente dell'album (a pari merito coi singoli).
Una canzone molto energica, piacevole, orecchiabilissima... Un ottimo pezzo pop, seguito però da una canzone assai discutibile; "Paradise", uno dei due singoli che hanno preceduto l'album, è altro pop, ma più calmo e accompagnato da bassi accattivanti e un beat relativamente incalzante.
Peccato soltanto per i primi, noiosissimi trenta secondi di calma assoluta messa lì solo per annoiare l'ascoltatore e i fastidiosi cori da stadio che tornano puntuali ad ogni ritornello.




E, dopo altri pallosissimi 30 secondi, si passa al banale pop della canzone successiva, "Charlie Brown", durante la quale i Coldplay di adesso sembrano una pallida copia di quelli che erano una decina d'anni fa, provando ad intrigare l'ascoltatore con scarso successo... Per fortuna, a seguirla c'è "Us Against The World", track pseudo-toccante, delicata, con ottime intenzioni ma non altrettanto ottimamente sfruttate. Resta comunque una bella canzone calma, rilassante e, in alcuni casi, persino "emozionante". Anche se, i fan rimarranno un pochino delusi da una track che, per quanto piacevole, non si avvicina neanche lontanamente ai lavori precedenti...

...Ma perchè tutti i singoli "importanti" vengono preceduti da intro pallosissimi? Prima di arrivare al singolo bomba "Every Teardrop Is A Waterfall", bisogna sorbirsi un interludio di quasi un minuto, "M.M.I.X". Ma ne vale la pena, considerando che la canzone in questione è probabilmente la migliore dell'album; sempre pop molto godibile (interessanti soprattutto le chitarre).




E dopo questa carina parentesi, si riprende con l'orrore; la noia di "Major Minus", l'assonnante ninnananna "U.F.O", lo scandaloso feat. con Rihanna in "Princess Of China" (la cui voce stona totalmente con il tono generale della canzone)... E un sacco di altra roba noiosa che vi strapperà di sicuro più di uno sbadiglio.

Se posso essere sincero, i 44 minuti più pesanti che io abbia mai ascoltato. Ed i Coldplay, essendo ormai diventati artisti pop, dovrebbero stare più attenti sotto questo punto di vista. Il cambiamento è sempre ben accetto, ma solo quando venuto bene. E, purtroppo, non è questo il caso.

Mi sono avvicinato a questo nuovo album con tutte le buone intenzioni del caso, ma non c'è stato molto da fare; un brutto disco è un brutto disco, indipendentemente da chi lo suona...   ;P

VOTO: 4.5

martedì 25 ottobre 2011

RECENSIONE MUSICA: Justice - Audio, Video, Disco

Dopo una recensione a tema cinematografico, ritorno al mio argomento preferito trattando un album uscito proprio ieri, "Audio, Video, Disco", nuovo e attesissimo lavoro dei Justice, duo francese di musica elettronica.




Il loro album precedente, "Cross", è stato definito un capolavoro della cosiddetta "post-french-touch", e vennero presi ormai come eredi dei Daft Punk. Con questo nuovo album, invece, i due acquisiscono un proprio stile personale, anche se ben lontano da quello precedente.

Questo cosa significa? Che chi amava l'aggressività, la ruvidezza e la potenza dei Justice di 4 anni fa, resterà profondamente deluso da "Audio, Video, Disco", poiché gran parte della spigolosità è stata sacrificata in nome del rock più duro e puro.

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Si parte con "Horsepower", vero e proprio monumento alle colonne sonore dei telefilm d'azione anni '80.
Già da questa prima traccia si nota immediatamente un cambiamento di sound nel duo: tutto suona più Rock & Roll, più pulito, levigato, ordinato.
La canzone è composta da una presentazione "epicizzata" da un crescendo di chitarre elettriche e melodie a là "Queen", per poi sfociare però in melodie un tantino banali e che stancano relativamente in fretta. Ottima canzone d'apertura, ma "Genesis" era di un altro pianeta.

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Passati i 3:40 minuti dall'avvio del player, si passa a "Civilization", tra le canzoni che più si avvicinano ai sound del lavoro precedente, con i loro (ex) suoni sporchi, compressi, grattosi... E, a mio parere, anche la canzone migliore dell'album. Peccato solo per il beat ben poco intrigante (che al massimo gioca sugli hats), ma purtroppo questo è un difetto che si protrarrà per tutto l'album.



Video di "Civilization", singolo che ha preceduto l'uscita dell'album.

La canzone successiva, Ohio, ne è l'esempio perfetto, sfoggiando cori, bassi e melodie interessanti, ma spiazzando l'ascoltatore all'arrivo delle percussioni, fastidiose a dir poco. Un beat strascicato, "rimbalzante", che malissimo si presta alla pulizia e alla sobrietà del resto.

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A sorprenderci (in positivo, stavolta) è la canzone che la segue, "Canon", che non si riferisce alla marca di apparecchi fotografici, ma ad una delle migliori canzoni dell'album, la quale apre con un intro piuttosto fine a se stesso ma che inizia energicamente con delle chitarre elettriche molto basse, a far da tappeto alla melodia centrale con molta efficacia. Verso metà, si riprende con il crescendo di chitarre elettriche (già incontrato in apertura, anche se in modo diverso), per poi chiudere con classe in un diminuendo.

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Purtroppo "On'n'On", 6° canzone dell'album, risulta invece molto scialba, tormentata per tutto il tempo da una pallosissima voce e da melodie totalmente insipide. Riempitivo evitabile, almeno quanto "Brianvision", la canzone più noiosa che i Justice abbiano mai composto, ripetitiva e banale alla nausea.

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Dopo la pesante caduta di stile, si riprende in grande stile con "Parade"; bassi splendidi, ad accompagnare inizialmente synth e in seguito cori, tutto rigorosamente scandito da battiti alla "We will rock you", con tanto di clap amplificati.

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Dopo la canzone seguente, la simpatica "New Lands" (che sembra in tutto e per tutto una canzone hard rock, con un ritornello killer), si passa all'ottimo elettropop di "Helix", forse penalizzato da un'eccessiva durata che la rende ripetitiva verso la fine.

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E infine, a chiudere le danze, c'è la title track, la più incazzata fra le canzoni del disco, e anche la più vicina ai "vecchi" Justice... O almeno, per i primi 4 minuti. Passati questi, la canzone diventa una lagna totale, addirittura interrotta da 2 minuti di silenzio (volevano lasciare il tempo per il riposino)?
Perlomeno, fino al 4° minuto si lascia ascoltare piacevolissimamente, i synth accompagnano perfettamente la voce modificata, e il beat svolge fa il suo sporco lavoro, pur senza strafare.



Lo splendido video di "Audio, Video, Disco".

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"Audio, Video, Disco" è un album che spaccherà in due la critica ma soprattutto i fan, poiché coloro che erano troppo affezionati al loro vecchio sound inorridiranno all'ascolto, mentre quelli più flessibili, che apprezzeranno la loro "rockettizzazione", se ne innamoreranno fin da subito.
Io mi piazzo in mezzo; personalmente premio il loro tentativo di acquisire la loro personalità attingendo da fonti rock che all'elettronica mancavano da un sacco di tempo, ma devo pur sempre riconoscere che non sempre l'esperimento risulta riuscito, e le pecche non mancano di certo (beat prevedibili e banali, mancanza di aggressività e totale assenza di originalità).

Nonostante tutto, resta un buon album che vi strapperà più di un ascolto. Rivolgetegli un ascolto, provare non ha mai fatto male a nessuno ;)

VOTO: 6.4

sabato 22 ottobre 2011

RECENSIONE FILM: Hanna

Volevo spezzare un po' il tema musicale per dedicarmi, per stavolta, al cinema.

Inizierei con qualcosa di non proprio semplice, dal momento che si tratta di un film estremamente controverso, che o si ama o si odia.
Sto parlando di Hanna, il film uscito un paio di mesi fa al cinema con la colonna sonora dei buoni vecchi Chemical Brothers (dei quali non mancherò di recensire qualcosa).



Non fatevi ingannare dal trailer: il film non è particolarmente frenetico.

Sono andato a vedere questo film con un mio amico, e, una volta usciti dalla sala, le opinioni erano totalmente discordanti: a me era piaciuto, a lui aveva fatto cagare. E vabbè, capita.
Un esempio perfetto di quello che intanto stava impazzando nei siti di cinema di tutto il mondo, nei quali la gente soddisfatta e affascinata dal lungometraggio si scontrava con quella che avrebbe ucciso il regista pur di farsi dare i soldi indietro.



La locandina del film.

Il film narra le peripezie di una ragazza, figlia del migliori agente di un'agenzia (rigorosamente mai nominata), il quale, scappato alla suddetta agenzia, si rifugia in una sperduta casetta nella taiga norvegese (o giù di lì).
Lì vive con la figlia che, giorno dopo giorno, viene duramente allenata, sia dal padre che dalle dure condizioni ambientali, al pericolo che le si potrebbe parare di fronte.
Un pericolo che si rende tangibile quando Hanna diventa poco più che adolescente e il padre le dà la possibilità di scappare da quello che era stato finora il suo rifugio e palestra di vita, al prezzo di essere perseguitata da Marissa Viegler, membro tra i più importanti dell'agenzia di cui sopra, e che ha avuto a che fare in precedenza con il padre della protagonista.



Marissa Viegler in tutta la sua austerità.

Hanna, così, si trova catapultata in un "mondo esterno" che prima conosceva solamente a livello teorico ed enciclopedico, e che non è ancora pronta ad affrontare.
Questa è, in poche righe, il riassunto dell'incipit della storia. Niente di trascendentale, ve ne sarete accorti... Se poi a questo si aggiunge la comparsa di personaggi azzeccati ma a malapena accennati e di alcune scene quasi prive di significato, la situazione non migliora, anzi... Senza neanche parlare dell'orrendo (a mio parere) finale.

Non mi perderò in commenti tecnici che non so fare (essendo un totale ignorante al riguardo), focalizzandomi piuttosto sulla trama, sui personaggi e sull'atmosfera. Il personaggio principale, Hanna, mi è piaciuto da morire, complice l'interpretazione perfetta dell'attrice e un profilo psicologico appena visibile, ma impeccabile, realistico e affascinante. Più ambigua è invece la presenza di altri personaggi (soprattutto nella seconda metà del film) che, pur essendo importanti per il proseguio dell'intreccio, appaiono poco più che comparse (ad esempio, Marissa o lo stesso padre di Hanna).

L'atmosfera, invece, è qualcosa di stupendo; riesce spessissimo ad essere dolce ed evocativa, ma a volte (in concomitanza degli scontri) diventa oppressiva e piena di tensione.
E deve tutta questa magnificenza anche ad alcune scene ricche di sentimento e alla colonna sonora.

Quest'ultima in particolare merita una menzione speciale, poichè, oltre ad essere stata composta dai Chemical Bros, è strepitosa e letteralmente "cucita attorno al film". Tutte le scene, persino le inquadrature, sono evidenziate ed enfatizzate in maniera perfetta.

Insomma, un film che... Dipende.
Dipende da quello che vi piace e da quello che cercate guardando un film: se volete azione sfrenata ed effetti speciali a catena, oppure psicologia profonda e trama da "Via Col Vento", guardate altrove, per voi sarà uno dei peggiori film di sempre. Se invece vi "accontentate" di un film pervaso da moltissima atmosfera e sensazione, dateci un'occhiata. Vi lascerà dentro qualcosa.

Voto: 6.9

domenica 2 ottobre 2011

RECENSIONE MUSICA: Massive Attack - Blue Lines

Ed eccoci finalmente arrivati alla prima recensione musicale in piena regola: dopo aver introdotto il genere del Trip Hop, non potevo di certo esimermi dal recensire l'album capostipite, ovvero, l'ormai dimenticato Blue Lines dei Massive Attack.





Dico "dimenticato" perchè, essendo uscito nel '91 ed essendo oltretutto l'album d'esordio del gruppo in questione, è stato sotterrato in fama dai suoi successori, comunque degni di questo (capo) lavoro.

L'album, pur essendo piuttosto sperimentale, presenta già i tratti tipici che caratterizzeranno il trip per gli anni a venire: le percussioni raffinate ma poderose (leggermente diverse, comunque, da quelle che verranno in seguito con i Portishead e Tricky), gli immancabili sample incastrati alla perfezione, e alcuni tocchi di classe vecchia scuola come gli scratch (ormai caduti in disuso nell'intero genere).

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L'album inizia con "Safe From Harm", che comincia già a trasportarci nelle atmosfere buie e ambigue, con una chitarra looppata estremamente bassa a fare, insieme ai synth spaziali à la Tangerine Dream, da tappeto sonoro per lo splendido e avvogente cantato femminile di Shara Nelson, in seguito accompagnato dalle solite, pesanti percussioni (fatte da hats trascinati e da kick pulsanti), spezzato dal rap "in pillole" di Del Naja, quello oscuro di Tricky e da una sporadica chitarra elettrica. 
Tutto ciò avviene in rapida successione e, nonostante il pezzo non sia particolarmente veloce, tiene "incollato" l'ascoltatore alle cuffie, intrigato dai continui cambiamenti e dall'atmosfera metropolitana quasi respirabile.
Insomma, un pezzo di quelli pesanti, ma non pesanti da ascoltare, anzi: scende giù da solo, e quando finisce si ha voglia di rimetterlo su.

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Certo, si ha voglia di rimetterlo su, se subito dopo non ci fosse una canzone come "One Love", che parte subito con pesantissimi e calzanti kick, i quali accompagnano la sensuale voce di Horace Andy.
Questa è una canzone trip "vecchio stampo", infarcita di sample e di scratch precisi al millisecondo, tutti azzeccatissimi, che mirano a variare la canzone e a renderla intrigante quanto la prima, nonostante i suoi 4:49 minuti, riuscendoci, purtroppo, solo in parte.
Nonostante tutto, resta una fantastica e romantica canzone, tra le migliori dell'album.

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Subito dopo, arriva la title track, "Blue Lines", forse la migliore in assoluto. La struttura iniziale è simile a quella della prima traccia (chitarra looppata, morbidi synth e percussioni soffici), ma rende ancora meglio; con le sue tastiere malinconiche, la meravigliosa chitarra e l'intrigante ma non aggressivo beat, prende di forza e, ascoltata di sera a luci spente, trascina l'ascoltatore in mezzo alla strada notturna, muri pieni di graffiti, ubriachi ai lati del marciapiede, case popolari mezze distrutte e fabbriche abbandonate...
Tutto questo viene ulteriormente enfatizzato dal fantastico rap di Naja, Tricky e Daddy G che, con voce bassa e cullante, fanno da Virgilio agli ascoltatori che stanno esplorando i gironi infernali dell'oscura metropoli.
Anche questa è una canzone che scorre via estremamente in fretta, e lascia spiazzati una volta arrivata alla fine, poichè si interrompe di tronco, lasciando immediatamente partire la traccia seguente.


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Traccia seguente, che eguaglia (se non supera) quella precedente; "Be Thankful For What You Got", infatti, pur essendo una cover, reinterpreta la canzone originale in maniera "trip-hoppettiana", aggiungendo alla fantastica voce di Tony Bryan percussioni quasi stordenti, ma non per questo inascoltabili, anzi.
Il tutto cullato malinconicamente e allegramente dalle tastiere e dagli scratch del Naja, che dipingono con una naturalezza incredibile le strade più povere di una metropoli sovraffolata così come delle favelas brasiliane, con melodie e testo in grado di rigare con le lacrime persino le sporche guance di un barbone. Una canzone che rappresenta perfettamente l'essenza della felicità in quello che si ha, dando maggior valore  agli affetti e non a ciò che è possibile comprare con il denaro.
Una finestra sulla vita di 4 minuti e 9 secondi.


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La traccia successiva, "Five Man Army", è considerabile l'unica canzone "blanda" del lavoro, forse a causa del beat non così intrigante (praticamente uguale a un beat dub, solo arrichito), del rap dal tono moscio (nel quale, però, si alternano tutte le voci dell'album) o dall'eccessiva durata di più di 6 minuti.
In ogni caso, resta interessante la sperimentazione di dub e rap, ma, purtroppo, non perfettamente eseguita.

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Una volta passato l'"ostacolo", ci aspetta un premio di quelli imperdibili: "Unfinished Sympathy", infatti, è una canzone incredibile, riprova del talento dei Massive Attack.
Riescono a creare un fantastico amalgama ritmico con un triangolo (a fare da melodia di sottofondo) leggermente sfalsato rispetto al ritmo dato dalle percussioni e dalle maracas (strumenti sulla carta discordanti fra loro, ma che vengono trasformati in un miscuglio perfettamente coerente).
Senza neanche discutere dell'incredibile voce di Shara (che ci regala degli acuti degni di un soprano) o dei violini e del piano che fanno da struggente melodia principale, spesso discordanti anche loro, con melodie totalmente diverse che si fondono, si inseguono l'un l'altra, si rubano il palcoscenico e che infine si fondono.
Canzone senza dubbio tra le più poetiche e toccanti dell'intera discografia dei Massive.

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Dopo la calma, arriva la tempesta; ed ecco che ad accoglierci troviamo le pesantissime percussioni di "Daydreaming", accompagnato inizialmente dalla dolce voce di Shara, interrotta quasi subito dal solito rap sussurrato e sensuale (che continuerà fino alla fine della canzone) del Naja e di Tricky, sorretti da un tappeto (volante) di synth e occasionali tastiere.
L'intero pezzo è pervaso da sarcasmo e da parodismo (come dimostra la presa in giro di "Here Comes The Sun"), e trasmette una potenza incredibile, data dal beat spaventosamente martellante e dal rap sottovoce ma energico, che lo rendono una sorta di canto di battaglia metropolitano.
Un grande brano, potente e corroborante.

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Segue "Lately", una splendida canzone, sempre cantata da Shara Nelson la quale sfoggia una voce particolarmente malinconica e solitaria, accompagnata da una ridondante melodia. Una solitarietà evidenziata dai sample quasi impolverati e dagli scratch che compaiono spessissimo durante i 4 minuti e mezzo del brano.
Il pezzo immerge in un deserto urbano, la città vuota la sera a metà Agosto, una stazione ferroviaria arrugginita, appartamenti abbandonati... Posti vuoti, ma con una lunga storia da raccontare, e Shara, in veste di traduttrice istantanea, ce le racconta al posto loro non con il testo, ma con le sue prodigiose corde vocali.

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Ed eccoci arrivati all'ultimo atto di questo album; "Hymn Of The Big Wheel" è la fine perfetta.
Con la sua speranzosa melodia e la sua pioggia di percussioni (comunque leggerissime), è come se lasciasse passare un fascio di luce attraverso la buia metropoli, una via d'uscita che finalmente si mostra allo smarrito visitatore, ma anche la tristezza della fine di un viaggio quasi trascendentale...
La liberatrice conclusione di un'esperienza fuori dal comune e che non avrà di certo lasciato impassibile l'ascoltatore .

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Blue Lines.
Più che un album, un'istituzione, la realizzazione su CD del leggendario "Bristol Sound", la nascita di un nuovo modo di intendere la musica elettronica nella generazione successiva (a anche in quelle dopo).
Andrebbe ascoltato a tutti i costi, rivolgetegli un ascolto anche (e soprattutto) se non siete amanti del genere; in particolare, obbligato per tutti quelli che per definizione di "musica elettronica" danno house e dance.
Un ascolto che vi schiarirà le idee, fidatevi ;)

VOTO: 9,2 

domenica 25 settembre 2011

GENERE MUSICALE: Trip Hop

Oggi, in occasione del mio primo "articolo" musicale, decido di inaugurare una serie di recensioni dedicate ad uno dei periodi musicali che in assoluto preferisco: gli anni '90. E, in particolare, all'elettronica degli anni '90.

Comincerei con il descrivere uno dei più importanti generi nati negli anni '90, ovvero il TRIP HOP. 
Un genere musicale caratterizzato da percussioni spesso (ma non sempre) pesanti, martellanti, ossessive, accompagnate da rap (o cantato normale) estremamente ipnotico e, in alcuni casi, quasi sussurrato (come vedremo nelle prossime recensioni).
Un genere particolare, non apprezzato da tutti, ma senza dubbio ipnotico ed eclettico. Eredita le percussioni del dub (appesantendole), ma le modifica, rendendole in alcuni casi quasi tribali, in altri più "standard", ma comunque intriganti e diverse da tutto il resto.



Angel è l'esempio perfetto quando si parla di Trip Hop; le percussioni filtrate sono estremamente pesanti e il canto, ripetuto, è ossessivo e sensuale (un elemento ricorrente del genere).


Melodicamente, definire il Trip Hop "complesso" o "particolare" è DECISAMENTE RIDUTTIVO.
Spesso e volentieri, le canzoni (soprattutto quelle dei Massive Attack) si rivelano molto intricate sotto questo punto di vista, sovrapponendo melodie e sample in apparenza discordanti fra loro, ma facendone un amalgama estremamente coeso.



Voce, melodia, effetti, sample... Tutto diverso, tutto discordante... Eppure, tutto così coerente... I Massive Attack sono riusciti a compiere un piccolo miracolo con questa canzone, facendo sentire all'ascoltatore un brano assolutamente particolare e che di sicuro lo trasporterà in un'altra dimensione.


Il genere nasce a Bristol, patria dei suoi più grandi esponenti (Massive Attack, Tricky, Portishead), e diventa immediatamente la voce della metropoli, la massima espressione musicale dell'urbano.
Il Trip Hop dipinge vicoli bui, metropolitane deserte, lampioni fulminati in una strada mal frequentata... E non li descrive con il testo, bensì con la musica vera e propria. Album dei Massive come "Mezzanine" o "Blue Lines", o dei Portishead (dei quali cito lo stupendo "Dummy"), ascoltati la sera, a luci spente e a occhi chiusi, fanno uscire la mente fuori dalla finestra, e la fanno camminare nelle vuote strade notturne pallidamente illuminate dai lampioni e dai fanali delle sporadiche auto che passano sull'asfalto.



Ed ecco un altro esempio perfetto: Risingson, pezzo rappato (con la voce sussurrata di cui sopra) infarcito di effetti sonori che tendono a ricordare l'ambiente urbano ( per esempio, effetti che si spostano da un orecchio all'altro, come automobili).


Insomma, questo Trip Hop è davvero un genere intrigante, particolare e ipnotico, che di sicuro non mancherà di interessarvi, se avrete la pazienza di tuffarvi nelle sue atmosfere oscure, cupe e introverse...
A breve delle recensioni riguardanti i migliori album del genere, a partire dal capostipite.
Restate sintonizzati, scoprirete nuova musica da ascoltare e di cui discutere con gli altri e con il sottoscritto!
Ricordate... Your Opinion Matters! 
Alla prossima! ;D